Trafficante di parole avvistato su Balarm

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A Palermo, c’è un piccolo giornale elettronico che segue tutti gli spettacoli e la cultura della città: balarm si chiama e non è come tutti gli altri giornali di questo tipo. Su Balarm, solo segnalazioni e recensioni di qualità ma soprattutto tanta voglia di promuovere un certo modo di fare musica e cultura, un certo modo rock di vivere Palermo che esiste e che prova a dare il suo contributo.

Questa premessa, per segnalarvi la bella intervista di un trafficante di parole venuto a Palermo per parlare di scrittura della migrazione.

Ebbene, in questa intervista si parla di Sarajevo, anzi di Belgrado e Sarajevo. Ma soprattutto della necessità fisica di poeti e letterati in tempo di guerra.

Ve ne copincolliamo uno stralcio, è troppo bella per resistere.

Il trafficante di parole in questione è ovviamente Erri de Luca.

Sicuramente ci sono eccellenze che fuggono, ma anche miserie tra i migranti. I conflitti, la sopraffazione dell’altro, i mali dell’uomo. A completare la risposta di prima, quale può essere il ruolo dell’intellettuale, dello scrittore, per il recupero del passato, della memoria rimossa?
«Io credo che il ruolo di quelli che hanno un pubblico ascolto, una pubblica voce, sia piccolo. Non è un ruolo di guida né di supplenza di ciò che manca, ma solo di testimoni del proprio tempo. Il miglior modo per esserlo è la presenza fisica, mischiarsi col proprio tempo e stare al pianoterra delle cose. Un mio amico poeta di Sarajevo, durante gli anni della guerra di Bosnia è rimasto lì. Non ha approfittato degli inviti ad emigrare, a smaltire quella guerra da profugo in qualche università estera. E’ rimasto lì. Da quelle parti i poeti hanno un ruolo importante, hanno una parola importante. Per strada le persone lo salutavano citandogli i suoi versi. E’ rimasto lì a fare la fila per l’acqua, per il pane, sotto la grancassa delle artiglierie e delle pallottole, anche scrivendo pochissimo. La presenza fisica, insieme ai concittadini di Sarajevo, è stata la sua migliore poesia. Dunque, quando qualcuno mi chiede generosamente che cosa deve fare un artista, la risposta è “stare”, “condividere la malora del proprio popolo per poterne portare testimonianza”. Per il resto potere fare la guida, guardare le cose da un punto di vista panoramico, io non ho mai saputo farlo».

[…]

Non credo sia così e cito testualmente un tuo libro, “Sola andata”: “in guerra le parole dei poeti proteggono la vita insieme alle preghiere di una madre. In una guerra gli orfani e quelli senza un libro stanno allo scoperto”. Qual è, così chiedo, la responsabilità di chi scrive?
«Intanto quella guerra succedeva in Jugoslavia. La mia responsabilità di scrittore era stare dalla parte dell’obiettivo, del bersaglio; guardare la NATO dalla parte del bersaglio. Succedeva che in quella guerra questo nostro paese aveva deciso di partecipare al bombardamento di città; e io considero il bombardamento delle città l’atto terroristico per eccellenza, rispetto al quale ogni atto terroristico, così come ogni altro con questo nome, è una decima. La mia posizione ostile a quell’atto è stato quella di condividere la paura del bersaglio. Mi sono trasferito a Belgrado e ho abitato lì. Che cosa ho fatto? Ho potuto semplicemente riportare da lì la mia testimonianza di bombardato, di bersagliato, collegare la mia esperienza di iscritto volontario ad una guerra a quella dei miei genitori che sono stati iscritti obbligatoriamente ad una guerra (durante il secondo conflitto mondiale) e che quei bombardamenti, quelli di Napoli, li avevano dovuto subire per necessità non volontaria. Io sono andato lì per scelta di dissociazione dal mio paese. Il risultato è stato che ho riannodato la mia esperienza a quella degli altri. Che cosa dovevo fare? Non lo so, potevo fare forse qualcosa di meglio, altri lo hanno fatto certamente, io non potevo fare altrimenti, per come sono io. Parlo di questo fatto perché mi hai citato quella pagina. Quella pagina non l’ho inventata, l’ho riportata da lì».

Chissà se il suo amico-poeta di Sarajevo era Izet Sarajli?