Riflessione a margine della secessione del Kosovo

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Con questo post inauguriamo delle riflessioni in profondità sulla questione dell’indipendenza del Kosovo, venendo incontro alla necessità che tutti avvertiamo, di elaborare il cambiamento che in questi giorni sta scuotendo la regione.

Come molti che arrivano a burekeaters in questi giorni cercando di capire cosa stia succedendo nei balcani (a proposito scusateci, se non abbiamo voglia di spiegare come si dovrebbe), qualche anno fa, ero costantemente alla ricerca di notizie e di “spiegazione” di un’altra guerra, in un altro posto per me dell’anima, l’Irlanda.
A quei tempi, divoravo tutto, il diario di Bobby Sands, scritto a Long Kesh, tutti i film che raccontavano la questione, tutta la musica che veniva dall’Irlanda (esclusi gli U2!) e persino la poesia: la raccolta di poesie di Seamus Heaney pubblicata da Marcos y Marcos, consumata e sporca di caffè, rimane, ingiallita a testimonianza di questa passione. Fra le letture che cercavo, incappai in un libro fondamentale, per quel periodo della vita, “Per una libera Irlanda“, di Gerry Adams, allora leader del Sinn Fein, noto come braccio politico dell’Ira, l’esercito repubblicano irlandese. Mi ricordo l’inizio del libro, che, partiva dal ricordo della sua vita, di come la politica e l’attivismo l’avessero segnato fin da ragazzino.
Egli diceva che da ragazzino dava per scontato che gli irlandesi cattolici in Irlanda del Nord fossero i poveri e dava anche per scontato che tutti coloro che conducevano una vita benestante, che avevano un impiego stabile magari in qualche amministrazione fossero orangisti (ovvero filo-inglesi). Sembrava che così andasse il mondo, naturalmente, e che quindi così sarebbe sempre andato.
Gerry Adams attribuisce la nascita della sua coscienza politica proprio alla presa d’atto dell’ingiustizia della situazione e parallelamente alla presa d’atto della possibilità di cambiare. Attraverso la lotta, sarebbe stato possibile, riequilibrare la situazione, una lotta, aspra e violenta, con tanto di esercito, per la liberazione e l’indipendenza dell’Irlanda oppressa.
Ecco, ai tempi, la forza delle sue parole e l’eloquenza dei suoi racconti mi colpì molto, così tanto che ancora la ricordo come cosa viva.
Devo però dire che, cogli anni, credo di aver cambiato idea rispetto a quelle considerazioni, nel senso, che non credo che spieghino tutto, anzi credo, che posta la buona fede dei combattenti come Gerry Adams o Bobby Sands, le loro storie di sofferenza non rispondano alla mia domanda fondamentale.
Che è quella del prossimo, dell’individuo, che rimane la voragine in cui ogni etica del nemico non può che cadere, perdendo di colpo la sua pertinenza.
Mi spiego meglio. Il simulacro di nemico che da un punto di vista politico, giustamente Gerry Adams, costruiva nel suo libro, crolla immediatamente nel contesto della cosiddetta vita quotidiana. Perché un unionista qualsiasi, uno dei protestanti in Irlanda del Nord, avrebbe dovuto vergognarsi del suo privilegio? Fare un lavoro del cavolo in un ufficio postale, fare il postino, l’impiegato comunale, l’insegnante, l’autista di autobus, persino il dirigente pubblico sono ben poca roba dal punto di vista della dura vita quotidiana, non sono certo mestieri di cui uno si arricchisce, non sono certo segni di un privilegio, in un mondo normale.
Uscire la sera nel pub della città a cercare ragazze, magari vestiti bene, con la marca di turno, andare a sentire l’ultimo concertino di musica folk, non possono di sicuro essere considerati una colpa dal punto di vista del singolo. Se no, tutti noi saremmo colpevoli. E, stiamo attenti che, dire tutti noi, significa dire nessuno.
Eppure il problema politico sussiste, per chi non può ingiustamente permettersi nemmeno il “minimo”, per chi, neppure può sognarsi l’impiego alle poste che ognuno di noi considererebbe normale. Questo genera la guerra. Nel senso di cui scriveva Amos Oz, di tragedia, di “sistemi di ragioni” che vengono necessariamente a scontrarsi ma proprio perché tali, ovvero sistemi di ragioni, difficilmente, possono spiegarsi con la facile legge dei buoni/cattivi, soprattutto a chi guarda da fuori.
La Bloody Bunday in Irlanda, Sabra e Chatila in Israele, Campo dei Merli o la stessa dichiarazione d’indipendenza del Kosovo, sono la scorciatoia, che permette di affibbiare patenti a chi della guerra in Irlanda, della strage di Sabra e Chatila o di Balcani, vuole fare un uso strumentale (il che non significa illegittimo).
Io e Biljana abbiamo costruito Burekeaters per il motivo opposto. E, ora mi tocca uscir fuor di metafora.
In Macedonia, la maggioranza slava è stata storicamente privilegiata. È tuttora privilegiata se si guarda ad alcuni parametri importanti. Per esempio, la scolarità e il reddito. Gli albanesi in Macedonia, sono poveri e ignoranti e questo è un gigantesco problema politico. È naturale che politicamente l’etnia albanese cerchi un riscatto, soprattutto in un regime in cui storicamente l’etnia e la religione ha reso tecnicamente facile da operare la discriminazione. Non dimentichiamo che esiste un nazionalismo jugoslavo che sta sui libri di storia. Non dimentichiamo che Jugoslavija significa “Terra degli Slavi del Sud” e che, quindi, già dal nome rimanda ad un’appartenenza etnica. Che ruolo avrebbero potuto avere i non slavi in una federazione che nasce dall’unione etnica? Questa domanda, pur non essendo quasi mai comparsa in questo blog, se la sono tragicamente posta moltissime persone non slave, pur cittadini jugoslavi. Così come se la sono posta, molti palestinesi cittadini israeliani a tutti gli effetti. La risposta è ovviamente stata insufficiente se si è arrivati a tanto, negli anni.
Ricordiamoci, però, che se è vero questo, ciò non implica che “i privilegiati” non abbiano niente da dire, che non abbiano una ricchezza da raccontare, non abbiano una dura vita quotidiana che non ha niente di eroico e che ci mette naturalmente in relazione. Dico ci mette in relazione fra singoli.
È chiaro che se uno va nel Balcani, è molto più facile che si “trovi bene” con chi, pur diverso, abbia un substrato comune che permette di mettersi in relazione. Io che sono dottorando a Palermo è normale che cerchi una corrispondenza nella relazione anche culturale, mi affascinano le persone colte, quelle che vanno alle mostre d’arte, che conoscono il cinema, che leggono alcuni libri anziché altri. Ecco, in Macedonia, per esempio, 70 volte su cento, questo significa mettersi in relazione con una persona di etnìa slava e ciò è un problema politico enorme, gigantesco. Ma non significa, che questa relazione, non possa essere allo stesso modo utile, non possa essere il segno di un arricchimento reciproco, fondato sullo scambio e sulla differenza. Una differenza che non è assoluta ma relativa, e che, proprio per questo, può essere cemento della relazione.
E può abbattere gli stereotipi di parte, facendo emergere che sempre più al giorno d’oggi, la gente si aggrega sulla base di gusti e corrispondenze, che non hanno una pertinenza necessariamente etnica.
Allora, la profonda divaricazione fra sud e nord, est e ovest, scolora in una differenza di “accesso” rispetto agli strumenti di emancipazione, accesso anche dei singoli. Noi pensiamo che proprio su questo si possa fondare il nostro antinazionalismo, identificando la non pertinenza delle differenze etniche nella battaglia per l’emancipazione politica, contro la poverta e per l’inclusione. In questo le etnìe adesso (ma non sempre e non per sempre) sono da ostacolo. E per questo c’è bisogno di traditori, che sempre più si mettano in contatto con il nemico, scrivevamo qualche tempo fa, magari se ne innamorino, per mostrare al prossimo, che ciò può essere possibile e persino utile contro la guerra.